Oggi pomeriggio con Salvo siamo andati a fare un sopralluogo nella Riserva di Pizzo Cane. A Palermo sin dal mattino si sono alternati rovesci di pioggia e schiarite, una situazione meteo che si protrae sulla Sicilia occidentale già da qualche giorno. Nonostante ciò, alla fine abbiamo deciso di andare. Il problema, comunque, non era tanto il meteo cattivo, quanto la natura della zona in questione e il fatto che non conoscessimo bene l’itinerario da percorrere.

Il cuore della Riserva di Pizzo Cane è costituito da una piccola catena montuosa, in parte di origini vulcaniche, caratterizzata da cime appuntite e pareti scoscese. Le due vette principali sono Pizzo Trigna (1257 metri) e Pizzo Cane (1243 metri). Salvo come al solito aveva studiato varie mappe, sia cartacee che elettroniche, per capire che strada fare, ma il territorio non è sicuramente dei più semplici. L’idea era quella di raggiungere la cima di Pizzo Cane, meteo permettendo.

Siamo arrivati verso le due e mezza di pomeriggio, in un momento in cui non pioveva. Il cielo era una gran confusione di nuvole bianche e grigie che lasciavano intravedere scorci d’azzurro. Come accade spesso in queste condizioni, il paesaggio era caratterizzato da forti chiaroscuri creati dalla luce del sole, che in alcuni punti era smorzata dalle nubi mentre in altri non trovava nessun ostacolo.

Abbiamo posteggiato lungo una stradella di campagna che corre parallela alla catena montuosa. Mentre osservavamo la cresta prima d’incamminarci, ci siamo accorti di un numeroso gruppo di cani, almeno una decina, che salivano lungo il costone verso una delle cimette alla nostra sinistra. Erano cani di diverse taglie e colori. Vederli inerpicarsi tra le pietre e la vegetazione cespugliosa, apparentemente verso il nulla, è stato stranissimo. Ma d’altronde questo inverno abbiamo trovato le impronte di un cane nella neve a Monte Cervi, a quasi 1800 metri d’altezza.

Dopo avere commentato il gruppo di cani semi-selvatici, ci siamo messi in marcia. Subito siamo entrati in un terreno incolto, aprendo una grata chiusa con del fil di ferro. Il campo era stracolmo di cardi selvatici ormai secchi.

La nostra meta iniziale era una sella lungo la dorsale, da dove pensavamo di cominciare a percorrere la cresta fino alla cima di Pizzo Cane. Dopo qualche centinaio di metri, il terreno incolto è diventato la parte bassa del costone. Così abbiamo cominciato a camminare in salita. In poco tempo, la pendenza è diventata così ripida che dovevamo inerpicarci.

La flora attorno a noi era composta da grandi cespugli di ampelodesma (la “disa”), rovi e altri piccoli arbusti. Sotto i nostri piedi la terra era sconnessa, un misto di pietrisco, pietre grosse quanto uno stivaletto da trekking, e massi. Procedere su questo tipo di terreno era noioso e faticoso.

Dopo circa un’ora, siamo arrivati a metà strada dalla sella. Salvo era avanti di una ventina di metri, su un cocuzzolo di roccia che sporgeva dal costone. Già da un po’ si era alzato un vento abbastanza deciso e le nuvole erano diventate molto più scure. Poi si è messo a piovere.

A quel punto mi sono trovato a dovere prendere una decisione: proseguire o tornare indietro. La situazione era la seguente: mi trovavo a metà di un ripido costone completamente esposto alle intemperie, sul quale riuscivo a procedere solo lentamente; avrei dovuto continuare a salire fino a una sella più in alto, per poi continuare lungo una cresta rocciosa sulla quale non ero mai stato prima; le previsioni davano temporali dalle 17 in poi ed erano già le 16.

Alcune ore prima, quando a casa avevo deciso di venire, speravo che il meteo migliorasse, o che semplicemente non piovesse nel punto esatto dove eravamo diretti. Alla fine capita spesso che piova in una zona e non in un’altra. Ma sembrava che le cose non stessero andando in quel modo. Di recente mi era già capitato di trovarmi in situazioni di meteo instabile. In una di queste occasioni, il temporale che si era scatenato era stato davvero intenso, con precipitazioni fortissime e fulmini impressionati (per fortuna ero già rientrato a casa). L’idea di trovarmi in quella situazione su un pizzo di montagna, incerto su dove proseguire, non mi allettava affatto. Così ho deciso di tornare indietro.

Dal punto più in basso in cui mi trovavo, ho urlato a Salvo, tra le folate di vento, che non mi sembrava il caso di continuare. Lui ha risposto che sapevamo che il meteo sarebbe stato brutto e che eravamo attrezzati per la pioggia. Ho ribattuto che proseguire mi sembrava pericoloso, visto il terreno che ci aspettava e il fatto che non eravamo mai stati sulla cima prima. Vedendolo decisamente seccato, gli ho detto che mi sarei preso le chiavi della sua macchina e sarei tornato indietro da solo. Avevo con me un thermos di tè e il telefonino prendeva, quindi potevo benissimo aspettarlo per ore in macchina. Dopo una titubanza iniziale, Salvo ha accettato. 

Sono salito sul cocuzzolo di roccia dove si trovava per prendere le chiavi; poi ho iniziato a scendere. Nel frattempo la pioggia era diventata più forte. La sentivo sbattere sulla mia giacca impermeabile come se fossi sotto una tettoia. Scendere in mezzo alla disa e al pietrisco fradici non è stato semplice. Ho uscito i bastoni da trekking dallo zaino per aiutarmi. Nonostante il terreno fosse molto pietroso, la pioggia ha reso la terra presente così morbida che in poco tempo mi si sono formate delle grandi ciaspole di fango sulle suole degli scarponi. Procedere in quelle condizioni è diventato ancora più lento.

Dopo circa mezz’ora, la pioggia ha prima iniziato a diminuire, poi si è interrotta del tutto. Ormai mi trovavo quasi di nuovo al campo di cardi. Stanco, affamato, e tutto sommato annoiato, mi sono seduto su una roccia a bere del tè con i biscotti. I colori del panorama erano bellissimi.

Mi sono fermato in quel punto per un po’ ad ammirare la vallata e godermi il silenzio. Ogni tanto sentivo in lontananza delle mucche muggire; a un certo punto ho sentito anche un cavallo che friniva. Tutta la zona ispirava un senso di quiete rurale. Diverse volte mi sono voltato a guardare la cresta in alto nel tentativo di individuare Salvo, ma senza successo. Poi ho visto che da ovest arrivava altra pioggia—il cielo in quella direzione è diventato buio e indistinto—e mi sono rimesso in cammino. Poco prima che arrivassi alla macchina aveva già ricominciato a piovere.

Mentre ero seduto dentro l’abitacolo aspettando che spiovesse, ho avuto modo di riflettere su quanto era accaduto. Prima d’ora non mi era mai capitato di separarmi da un gruppo e tornare indietro. Questa esperienza mi ha fatto mettere bene a fuoco la differenza tra scomodità e pericolo quando si va in montagna.

Molti pensano che si debba andare in montagna solo quando c’è bel tempo: sole, non troppo caldo, non troppo vento. In realtà non è così. Come ho già avuto modo di scrivere, questa idea riflette una visione della natura come qualcosa di addomesticato, quasi di urbano. Si può andare in mezzo alla natura anche quando piove e c’è vento. Fare ciò può essere scomodo: ci si può bagnare, sentire freddo, infangare scarpe e pantaloni, stancare più del solito, magari avere un po’ di raffreddore o mal di testa l’indomani. La soglia di scomodità è ovviamente una questione del tutto personale; dipende dalle proprie capacità fisiche e volontà personali. Inoltre, grazie a tutta l’attrezzatura tecnica oggi disponibile, questa scomodità può essere mitigata in molti modi.

Altra cosa è il pericolo. Camminare sotto la pioggia in pianura o su pendenze moderate non è un’attività pericolosa; lo diventa se si sale su pendii scoscesi e rocciosi. Il pericolo non è uguale all’imprevisto. Chiaramente anche passeggiando si può inciampare e sbattere la testa (anni fa a Palermo una donna morì in questo dopo essere inciampata scendendo dall’autobus). Ma mettere sullo stesso piano imprevisti e pericolo—pericolo di gravi infortuni o morte—vorrebbe dire non prendere mai la macchina, non uscire di casa, e forse nemmeno dal letto. Dormire in tenda in una giornata invernale non è pericoloso (può essere scomodo); lo diventa se le temperature sono prossime allo zero e non si ha un ottimo sacco a pelo. Il pericolo include la scomodità, ma non per forza vice versa.

Quello che hanno in comune pericolo e scomodità è la valutazione personale. Anche il concetto di pericolo è frutto di una valutazione personale, di una soglia che può essere superata o meno. Per me oggi proseguire verso Pizzo Cane in quelle condizioni meteo era pericoloso; per Salvo non lo era; o lo era, ma lui ha deciso di accettare il rischio.

Per fortuna, grazie alla tecnologia di oggi, Salvo ha potuto comunicare a intervalli regolari che stava bene. Dopo circa due ore e mezza, durante le quali ha piovuto ma senza che scoppiasse un temporale, anche lui è tornato alla macchina. Con mio grande stupore, l’ho visto arrivare dalla direzione opposta a quella che mi aspettavo. Ho così scoperto che raggiunta la sella, anziché proseguire a destra in salita verso la cima di Pizzo Cane, aveva deciso di andare a sinistra e percorrere la cresta in discesa.

La cresta rocciosa che porta a Pizzo Cane fotografata dalla sella (foto Salvo)