Le idee, come le onde, hanno un’area di generazione. Ci raggiungono dopo aver viaggiato per vaste distanze e il loro passato è spesso invisibile o a malapena immaginabile. La wildness, la «selvaticità», è una di queste idee: ha percorso distanze temporali immense. A parlarcene, ai giorni nostri, sono due grandi storie, tra loro contraddittorie. La prima vuole che la selvaticità sia una caratteristica da soggiogare; la seconda, da tenere cara.
L’etimologia della parola wild è dibattuta e sfuggente, ma il passato piú persuasivo proposto per il termine chiama in causa l’alto germanico antico wildi, l’antico norreno willr e il protogermanico ghweltijos. Tutti e tre i lemmi trasmettono implicazioni di disordine e irregolarità e, come ha scritto Roderick Nash, lasciano in legato alla radice inglese will «un significato descrittivo di […] “volitivo” o “incontrollabile”». La wildness, secondo questa etimologia, è un’espressione di indipendenza dalla direttiva umana, e una terra selvaggia può essere intesa come una terra caparbiamente autodeterminata. Una terra che procede secondo leggi e principî propri, una terra le cui abitudini – la crescita dei suoi alberi, i movimenti delle sue creature, la libera discesa dei suoi torrenti fra le rocce – sono di sua propria progettazione ed esecuzione.

R. Macfarlane, Luoghi selvaggi, Einaudi.